I porti di Los Angeles e di Long Beach (California) stanno lavorando h24, sette giorni su sette. Il motivo della no stop è il grande caos che si è creato nelle settimane scorse: da ormai più di un mese ci sono decine e decine di cargo ormeggiati, il tempo di attesa per entrare in porto è di tre settimane. Una situazione difficile, che ha richiesto l’intervento del presidente Joe Biden il quale, tramite la propria amministrazione, ha preso una decisione destinata a diventare impopolare: una tassa per i container che stazionano nei porti per un tempo maggiore rispetto a quello dovuto.
Ma gli Stati Uniti non sono l’unico collo di bottiglia del sistema commerciale mondiale: si registrano situazioni critiche un po’ ovunque.
Quelli californiani sono porti strategici
I porti californiani normalmente sono aperti nei giorni feriali dalle 8 alle 17 e dalle 18 alle 3 del mattino, la domenica sono fermi. Dal porto di Los Angeles entrano il 40% delle merci che importano gli Stati Uniti: vengono movimentati circa 200mila container a settimana. Con le attese che si sono venute a creare, è stato necessario puntare sull’operatività continua, il che consente allo scalo di smaltire circa 3.500 container in più ogni sette giorni: in proporzione ai quantitativi complessivi non è poi così tanto.
E pertanto, per arginare l’emergenza, dal primo di novembre, a Los Angeles e Long Beach, entra in vigore una tassa per i container che restano fermi troppo a lungo nei terminal.
Al nono giorno scattano i primi 100 dollari
Scopo della tassa è sbloccare forzatamente i terminal e far muovere i container più velocemente dei ritmi attuali. Ma il provvedimento non è piaciuto ai membri del National shippers advisory council (Nsac), il quale conta 12 importatori statunitensi e 12 esportatori, tra cui pezzi grossi come Amazon, Ikea. In sintesi, il consiglio ha definito la tassa “folle”.
Il meccanismo funziona così: se i container non lasciano il porto entro nove giorni dall’arrivo, vengono addebitati al vettore 100 dollari. Difficile però pensare che lo spedizioniere digerisca il costo aggiuntivo senza rivalersi sul proprietario effettivo del carico. A tal proposito, una clausola del vettore marittimo HMM afferma: “Il mittente è responsabile del pagamento di eventuali oneri o supplementi imposti al vettore da qualsiasi terminal marittimo, autorità portuale, autorità governative o altri terzi”.
Il rischio, quindi, è che questo addebito non faccia altro che aggiungere ulteriori costi alle spedizioni, le quali tra l’altro sono già alle stelle. Anche perché non è difficile pensare che saranno in tanti a subirla: la situazione dei porti è complessa per diversi fattori, a monte e a valle della spedizione marittima.
Mancano gli autisti
A rallentare le operazioni è infatti anche la carenza degli autisti di camion: in California ne mancano 60mila, in Europa, secondo le stime di TransportIntelligence, ne mancano 400mila (in particolare in Polonia, Gran Bretagna e Germania). Ecco perché il Nsac si è sentito in qualche modo offeso dal provvedimento e ha sintetizzato così la situazione: “Non è interesse di nessuno tenere i container fermi. I problemi derivano dallo stato in cui vertono le catene di approvvigionamento”.
Asia: crisi container in arrivo
Anche sulle coste cinesi gli scali sono congestionati e le attese sono lunghe: il picco della crisi si era raggiunto a giugno con la chiusura, causa Covid, dello scalo di Yantian, ma gli stop continuano, per esempio ai terminal di Nangobi e Shenzen. E sempre in Cina, secondo Cogoport, che ogni due settimane fa il punto sullo stato di congestione dei porti, sull’inventario dei container e la disponibilità delle prenotazioni, c’è da aspettarsi, causa Natale e capodanno cinese, un aumento della domanda di container già nelle prossime settimane. La stessa cosa vale per il Vietnam, che ha riaperto i porti (chiusi per Covid) all’inizio di ottobre e che dunque sta ripartendo. Restando in Asia, sempre secondo Cogoport, al momento Myanmar, Giappone, Malesia, Singapore e Filippine hanno container sufficienti, mentre Cina, Corea, Vietnam, Cambogia, Thailandia e Indonesia stanno affrontando una crisi.
E in Europa?
Dal 2 novembre chiude (per una settimana) la linea ferroviaria del porto di Rotterdam e dunque qualche disagio è prevedibile. Continua inoltre la congestione del Regno Unito per via della mancanza di camionisti. In Italia, a Genova, se non avrà successo la trattativa in corso, l’8 novembre potrebbe riprendere lo sciopero dei portuali del terminal Psa Pra’ per il rinnovo del contratto integrativo, facendo ricadere lo scalo in un déjà-vu.
Insomma, le supply chain sono sotto stress ovunque tanto che, a meno di due mesi dal 25 dicembre, qualcuno inizia a chiedersi: il Natale è in pericolo?