La genetica molecolare può tutto, tanto che sul mercato, al dettaglio come negli scaffali della Gdo, si trovano pomodori di tutte le fogge e di tutti i colori. Ma l’estetica non basta: se il consumatore chiede un prodotto di qualità e gustoso, la distribuzione chiede costanza nelle forniture, mentre i produttori chiedono produzioni resistenti ai patogeni. E pertanto, per accontentare tutti, gli ibridatori sono diventanti un tassello fondamentale della filiera. Ecco che cosa è emerso da una chiacchierata con alcuni operatori del settore.
Per Alessandro Montanarella, consulente agronomico della azienda agricola F.lli Ressa in Spinazzola (BA) e che opera in diversi paesi, tra cui Canada, Inghilterra, Grecia e Cecoslovacchia, le cose sono cambiate in meglio. «Una volta – ha spiegato – i produttori sceglievano le varietà in funzione della tradizione locale, con tutti i limiti del caso, perché le produzioni arrivavano contemporaneamente con ricadute negative sui prezzi». Da qualche anno, però, come riferisce Montanarella, le dinamiche sono cambiate: l’ibridatore è diventato un attore importante, tanto che oggi ha un rapporto diretto con la distribuzione, con la quale fa accordi. «A quel punto – prosegue il consulente agronomo – vengono individuate le aziende capaci di trasformare il seme in prodotto: i vantaggi sono per tutti». Si lavora infatti con produzioni già collocate e il prezzo è già stabilito. Inoltre, non vale l’obiezione che a lavorare sono solo le aziende di grandi dimensioni: «Non è un problema di dimensioni aziendali – ha puntualizzato Montanarella – ma di criteri con cui si lavora. Per esempio, l’azienda Ressa conta 3 ettari di superficie, ma lavora ad alti livelli qualitativi, tanto che siamo riusciti a trasformare le alte temperature estive da criticità a opportunità. L’obiettivo è coprire per 365 giorni la produzione: se si lavora secondo il criterio della qualità e dell’innovazione, nessun produttore è escluso».
Interessante anche il punto di vista di Luigi Torri titolare, insieme a Rosa Nacchia, dell’azienda Agrisole di Pontinia che produce (anche) pomodori, gestendone il confezionamento.
«Il nostro core business – racconta Torri – è il pomodoro, che trapiantiamo da febbraio a giugno. In passato siamo stati attenti a scegliere varietà in linea con i desiderata del canale tradizionale e della Gdo e pertanto, negli ultimi anni, abbiamo subito la tendenza di coltivare pomodori di calibri piccoli (ciliegino, piccadilly e datterino). Ma ci siamo resi conto che il mercato, che vanta potenziali e grandi numeri, era ed è molto inflazionato. Per questa ragione abbiamo dedicato alcune superfici alla coltivazione del pomodoro Monterosa, che per noi è un ritorno alle origini poiché la zona produttiva di Latina è sempre stata vocata per la produzione di pomodori di calibro medio grande. Un pomodoro che ha un’identità e che è stato ben accolto a livello commerciale per le sue caratteristiche».
Sul discorso del ritorno alla trazioni e alle origini è d’accordo anche Stefano Faccio, titolare dell’omonima azienda di Salizzole (VR). «Il mercato italiano – ha esordito – resta standardizzato sui classici pomodori, il Cuore di Bue, il San Marzano, sia verde, sia rosso. Negli ultimi anni si sta puntando molto sulla genetica, ma non bisogna dimenticare che il consumatore chiede gusto, tanto che anche la Gdo propone prodotti premium. D’altro canto il pomodoro è un prodotto “pratico”, destinato principalmente al consumo fresco: difficilmente avremo una IV gamma del pomodoro». «A mio avviso – ha concluso – le nuove varietà devono rispettare la tradizione: i pomodori gialli, quelli marroni, sono prodotti di nicchia destinati alla cucina creativa. Per il largo consumo, invece, occorrono prodotti gustosi, dunque con una maturazione più avanzata, ma che abbiano una shelf life più lunga, perché devono accontentare le esigenze della Gdo, che chiaramente non desidera prodotti che maturino sugli scaffali».