«L’ortofrutta diventerà sempre di più il terreno di confronto della distribuzione moderna perché è la voce sulla quale il cliente presta più attenzione».
Daniele Tirelli, professore dell’Università Iulm di Milano, presidente del Retail Institute Italy, nonché una delle voci più autorevoli in Italia quando si parla di retail, distribuzione moderna e dinamiche di consumo, non ha dubbi sul ruolo del fresco, freschissimo e dell’ortofrutta in particolare.
«D’altronde, le grandi marche industriali che vendono un prodotto diciamo “ecumenico”, che va bene per tutti, verranno vendute sempre più con tecniche semplificate. Faccio l’ordine e vado a ritirare i prodotti nel minor tempo possibile, magari spendo anche meno perché ritiro da un magazzino e non da un negozio che ha tanti costi fissi. Un prodotto seriale è sempre lo stesso e lo compro dove mi conviene di più».
Scenario che cambia completamente nel caso di un prodotto fresco. «Se io vendo delle fragole che hanno un ottimo gusto, questo genera una soddisfazione che mi porta a ritornare nel punto vendita”.
Il consumatore premia chi ha un reparto ortofrutta al top
Il consumatore premia non solo chi ha prodotto quella fragola ma soprattutto anche chi me l’ha offerta nel miglior stato possibile perché quest’ultimo aspetto, sul quale la grande distribuzione si gioca una partita decisiva, fa la differenza tra un reparto ortofrutta trainante ed uno meno attraente. Non facile trovare, però, la formula migliore e capire quali possano essere le sfide più impellenti da affrontare.
Anche se un benchmark da imitare, per l’ortofrutta, secondo Tirelli ora c’è ed ha anche un nome. “Si chiama Banco Fresco in Italia e Grand Frais in Francia. Loro rappresentano il punto di riferimento assoluto. Se organizzi un reparto ortofrutta come il loro, il problema è risolto!” ci dice quasi un po’ provocatoriamente. “Non sto dicendo che ci si guadagna sicuramente. Loro ci guadagnano in virtù del know how che hanno, altri potrebbero farlo perdendoci. Sto dicendo, però, che la miglior offerta di ortofrutta esistente in questo momento sul mercato è la loro”.
La difficoltà di una filiera poco strutturata
Assortimento di grande profondità, ottima comunicazione nel punto vendita, rapporto con il cliente al di sopra della media. Tre aspetti che se portati a grandi livelli fanno la differenza, ma che si devono però scontrare anche con situazioni contingenti e che cambiano da negozio a negozio.
«Le differenze che troviamo nei vari punti vendita dipendono anche dalla situazione contingente, caratterizzata da una saturazione delle vendite nel largo consumo. Le strategia per contrastare tutto ciò si traduce in un’enfasi sui prezzi e sulla necessità di acquistare grandi volumi all’interno di una filiera che però non è strutturata, in questo momento, per supportare massificazione e omogeneità».
«È un lavoro difficile quello del buyer in questa situazione, perché non è facile acquistare tanti volumi da pochi player in Italia, e quindi, dovendo fare il contrario, aumenta la complessità e con essa i costi». Rivaleggiare sulla qualità è invece differente, ma è possibile farlo solo se si hanno a disposizione, con continuità, prodotti con caratteristiche identiche. «In questo caso la tecnologia aiuta, ma sono ancora pochi quelli che si sono dotati di strumenti, che esistono sul mercato, che consentono di omogeneizzare la qualità».
Sostenibilità? Meglio “fattibile al minor costo”
Un tema con il quale tutti gli attori della grande distribuzione devono fare i conti è anche quello della sostenibilità, sia essa economica, ambientale o sociale. Un aspetto sempre più richiesto dai consumatori che sembrano premiare chi persegue obiettivi di questo tipo.
«Il tema è molto interessante, come al solito molto dibattuto e come al solito anche poco approfondito come capita spesso nel nostro paese. Perché al di là delle belle parole il tema della sostenibilità implica quello della complessità»
ci spiega Tirelli, secondo il quale «filiere molto complesse richiedono una visione critica e razionale perché la sostenibilità si compone di innumerevoli apporti che concorrono alla produzione di qualcosa che a noi appare semplice e che invece è molto complesso, come appunto un prodotto dell’ortofrutta».
Un compromesso con il quale il tema della sostenibilità, secondo Tirelli, deve fare immediatamente i conti è quello di dover rispondere alla domanda del mercato e quindi alle preferenze del cliente finale. «Se ho un terreno e devo decidere cosa coltivare spesso devo optare per varietà non autoctone ma richieste dal mercato. Ma spesso non si tratta neanche solo di piantare una determinata varietà, ma di far sì che alla fine sia di una qualità tale da poter competere con altre produzioni che invece vengono coltivate in territori vocati. Tutto ciò comporta l’utilizzo di operazioni sui terreni per piegarlo a motivazioni economiche». Da qui il legame della sostenibilità con l’uso che faccio della tecnologia. «Se io volessi raccogliere fichi d’India perché c’è una forte domanda questo si configura come ecocompatibile perché in Sicilia, ad esempio, crescono spontaneamente e sono anche resistenti agli attacchi dei parassiti crescendo nel loro ambiente. Ma se non c’è domanda devo coltivare altro, magari in una serra, anticipare certe produzioni per coprire la domanda del mercato».
Più che sostenibile, secondo Tirelli, un prodotto dovrebbe essere «fattibile con il minimo costo, nel senso più ampio del termine, quindi non solo economico ma anche ambientale, questo renderebbe meglio l’idea».
Tra le tante declinazioni che il concetto di sostenibilità trova nel reparto ortofrutta c’è anche il tema del packaging, anch’esso delicato e complesso, che va a braccetto con la riduzione degli imballaggi in plastica monouso. Sempre più insegne della grande distribuzione stanno mettendo in campo strategie che vanno verso questa direzione, anche per andare incontro alla campagna lanciata recentemente dalla Commissione europea sull’economia circolare.
In Europa, alcuni attori della Gdo stanno anche introducendo misure per privilegiare lo sfuso rispetto al confezionato nel reparto ortofrutta. È una soluzione “sostenibile”?
«Se io riesco ad avere delle produzioni omogenee da vendere a peso fisso, la confezione diventa fondamentale e a quanto pare un sostituto della plastica, che è comunque riciclabile, attualmente non è ancora stato trovato». Se viceversa opto per una vendita più massificata e sfusa ho però altri problemi secondo Tirelli: «la qualità della frutta consumata a casa dipende fortemente dalla condizione con cui viene trattata nel punto vendita: i consumatori la toccano, tastano e quindi c’è un problema di qualità percepita ed effettiva. Per non parlare dello spreco: delle albicocche manipolate tutto il giorno, possono sembrare belle al momento dell’acquisto, ma una volta giunti a casa i difetti si evidenziano e vengono buttate».