Quello altoatesino è il comprensorio della mela italiana più importante e virtuoso (insieme a al Trentino), recentemente oggetto di uno studio approfondito da parte del FAO che lo indica come modello virtuoso e sostenibile. Ma nonostante uno stato dell’arte decisamente positivo per la melicoltura altoatesina, non bisogna fermarsi sugli allori, ma essere sempre proattivi, osservando con attenzione soprattutto i punti di debolezza. Tra gli interventi che hanno animato la prima giornata di lavori del congresso di Interpoma (20-22 novembre | Fiera Bolzano), quello del professor Gottfried Tappeiner (Università di Innsbruck) ha voluto porre l’accento proprio sui punti di debolezza della melicoltura altoatesina. «L’Alto Adige è un territorio esemplare. 7000 produttori che hanno 2,5 ettari ciascuno e si riesce a coordinarli! Riesce a rendere possibile ciò che apparentemente non sembrerebbe possibile». Bene, quindi, i primi anelli della filiera melicola in Alto Adige: l’aspetto produttivo, la raccolta, il controllo della qualità nonché la conservazione.
Su due aspetti, però, bisogna migliorare. Per quanto riguarda la distribuzione e la vendita, secondo Tappeiner, ci vuole maggior collaborazione tra chi produce e chi poi è deputato alla vendita al consumatore. «Il problema è la condivisione del rischio per la merce invenduta: se ci fosse, chi va poi a contrattare con le grandi catene di distribuzione avrebbe in mano più certezze. I venditori, quindi, hanno un po’ le mani legate». Infine l’assistenza al consumatore finale. «I Consorzi fanno parecchio, ci sono collaborazioni con altri prodotti del territorio, siti internet, ricette, attività sui Social Network, ma alla fine ci si sente un po’ confusi, perché manca una strategia univoca, chiara e unidirezionale».
Quindi? «La mela non è un prodotto brand: ci sono molte varietà e non c’è un leader di mercato. Le mele Club ci hanno provato, ma non hanno aperto nuovi mercati, ma scatenato una guerra contro le varietà tradizionali». Tappeiner cita quella che in psicologia si chiama “euristica della disponibilità”. «Con le strategie di prezzo si può fare poco nei confronti delle preferenze dei consumatori. Queste sono veicolate dalla qualità ma anche l’emotività. Nel momento in cui ho voglia di uno spuntino devo pensare al prodotto che ho visto più frequentemente. Quando ho poco tempo, la scelta nasce da questa sorta di impressione mentale che mi porto dietro. Si fanno pubblicità enormi per prodotti come il detersivo in modo tale che la massaia, automaticamente, pensi ad una determinata marca. Anche per le mela vale la stessa cosa: dobbiamo chiederci cosa dobbiamo fare, per esempio, affinché aumenti la richiesta di frutta in generale e aprire il mercato delle mele nel segmento degli snack, degli spuntini veloci».
L’investimento in comunicazione e pubblicità, quindi, secondo il professore austriaco è fondamentale. «La Ferrero spende 230 milioni per fare pubblicità solo in Germania ed è l’unico produttore che può fare il prezzo non avendo concorrenza. I grandi gruppi spendono dal 4 al 10% del fatturato in promozione nei confronti del consumatore. Se per ogni kg di mele vendute investissimo in Europa un centesimo in promozione avremmo 150 milioni di euro in più a disposizione».