Piccante quanto basta, ma ancora da scoprire: tra gusto, salute e territorio il peperoncino italiano si presenta in un evento organizzato dal Crea, in collaborazione con la Rete rurale nazionale, oggi 25 maggio, dalle 11, a Roma.
Ricercatori di diverse discipline (agronomia, botanica, nutrizione, pedologia) e produttori, alla presenza del sottosegretario Mipaaf Francesco Battistoni si sono confrontati sulle prospettive di un prodotto che potrebbe ancora crescere molto e che è uno dei simboli gastronomici del nostro Paese.
Cresce la domanda di peperoncino
E’ alta, infatti, la domanda di peperoncino dei consumatori italiani, ma la produzione nazionale è scarsa e copre solo il 30% del fabbisogno. Il resto proviene da mercati extra-Ue (2mila tonnellate annue da Cina, Egitto, Turchia), viene importato a prezzi stracciati (1/5 in meno) e si caratterizza per i bassi standard qualitativi, che penalizzano la filiera made in Italy. In Italia, infatti, da dieci chili di peperoncino fresco si ottiene un chilo di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro, mentre il medesimo prodotto proveniente dalla Cina ha un costo di soli tre euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata – compresi picciolo, foglie, radici – con scarse garanzie di qualità e requisiti fitosanitari ben diversi da quelli rispettati nel nostro Paese. La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile e anche quando il peperoncino viene importato fresco o semi-lavorato da Turchia o Egitto, la sua qualità viene compromessa dall’utilizzo di molti conservanti.
Il rilancio della filiera
La ricerca è impegnata per il rilancio di una filiera nazionale, basti pensare a quanto fatto in passato con il progetto Pepic (coordinato dal Crea orticoltura e florovivaismo) sulla caratterizzazione e valorizzazione del germoplasma, individuazione di marcatori per la connotazione territoriale, meccanizzazione, epidemiologia e difesa della coltura. In particolare, si è studiata la risposta fisiologica di varietà locali ed asiatiche di peperoncino piccante alla coltivazione in diversi ambienti pedoclimatici, per individuare marcatori morfologici e metabolici peculiari, utili a valorizzare la biodiversità locale. Occorre, dunque, una maggiore tutela del prodotto che, grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno, trova nel nostro Paese l’ambiente ideale per la sua coltivazione. La creazione di denominazioni di origine territoriale darebbe al consumatore garanzia di qualità, tracciabilità, salubrità e un valore aggiunto adeguato alla parte produttiva, incentivata ad aumentarne la coltivazione estensiva, presente oggi soprattutto in Calabria (100 ettari, con il 25% della produzione), Lazio, Basilicata, Campania e Abruzzo. Si verrebbe, così, incontro alla domanda sempre crescente dell’industria alimentare e alle esigenze dell’export (nei Paesi Bassi va il 50% della produzione calabrese).
La necessità di ammodernare
Sono ormai note le potenzialità nutraceutiche di questa spezia, se utilizzata adeguatamente nell’ambito della nostra dieta mediterranea. Proprio la capsaicina – la molecola che conferisce il sapore piccante al peperoncino – insieme alla presenza di altri composti bioattivi, i capsinoidi e composti polifenolici, aiuta la riduzione del rischio cardiovascolare e può contribuire a favorire la perdita di peso, ovviamente in associazione ad una dieta ben equilibrata.
Il sistema produttivo italiano, oltre a certificazioni di qualità, avrebbe bisogno anche di un ammodernamento delle tecniche di lavorazione per abbattere i costi produttivi, a partire dal miglioramento varietale delle cultivar, per ottenere frutti concentrati sulla parte superiore ed esterna della pianta, più facilmente distaccabili nelle operazioni di raccolta con macchine agevolatrici.
Fonte: Crea