Mentre si torna a parlare di contratti di filiera e di un’iniezione di liquidità per sostenerli, ieri, 17 giugno, nelle campagne di Foggia e Campobasso sono scattati gli arresti per sette persone. Tre sono in carcere, quattro ai domiciliari. Si tratta di caporali – un molisano, un senegalese, cinque foggiani – i quali, secondo l’ormai noto cliché, costringevano 150 migranti a lavorare nei campi sotto al sole per ore, senza nutrirsi, con acqua di pozzo per dissetarsi. Di mascherine e protezioni anti Covid-19 nemmeno l’ombra. Non pervenuti, naturalmente, contributi e garanzie sulle norme di sicurezza sul lavoro.
Non si tratta di un caso isolato: i campi italiani sono pieni di situazioni come queste, tanto che stamattina il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, intervenuto all’iniziativa di Cgil “Futura 2021. Categorie e tutele individuali”, ha dichiarato: “Troppo spesso si parla di caporalato solo quando c’è un morto o la retata, mentre dobbiamo ogni giorno mettere al centro il diritto dei lavoratori e delle lavoratoci del comparto agroalimentare”.
La dimensione del fenomeno
Il meccanismo con cui i braccianti sfruttati vengono reclutati è grosso modo sempre lo stesso: società di intermediazione illecite mettono in piedi un meccanismo per eludere i controlli e sfruttare la manodopera clandestina. Gli imprenditori agricoli complici non fanno contratti e risparmiano, perché i salari – se così li si può chiamare – sono bassissimi. Nel caso specifico che ha portato agli arresti di ieri, i clandestini lavoravano a cottimo per 4,5 euro l’ora: a ogni inadempienza – pomodori sporchi o una cassetta sistemata male sul camion – venivano decurtati 50 centesimi. E poi ci sono i costi di viaggio: i braccianti, per viaggiare in condizioni a dir poco precarie, devono pagare il trasporto, spendendo anche cinque-dieci euro a tratta.
Quantificare il fenomeno del caporalato in Italia non è semplice. Le stime indicano in circa 200mila i lavoratori in agricoltura particolarmente vulnerabili e quindi soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato. Il fenomeno è diffuso in tutta Italia, con una maggiore concentrazione in alcuni distretti produttivi (provincia di Foggia, di Latina, di Caserta).
Più di un miliardo per i contratti di filiera
Secondo il ministro Patuanelli, se ne esce se si innesca un circolo virtuoso: “La prima cosa è garantire un reddito dignitoso agli agricoltori che possa, a sua volta, essere distribuito ai lavoratori e alle lavoratrici – ha spiegato il ministro – Abbiamo inserito nel fondo completare del Piano nazionale di ripresa e resilienza un miliardo e 200 milioni per i contratti di filiera. In questo modo si può monitorare la supply chain”.
La legge c’è, ma alcuni aspetti vanno migliorati
“Troppo spesso – ha aggiunto il ministro – in questo Paese quando c’è un problema lo si affronta con una nuova normativa o modificando l’impianto normativo esistente. Io penso invece che le normative ci siano per affrontare certi argomenti, ma che devono sviluppare appieno le loro potenzialità”. “La Legge 199/2016 – ha proseguito Patuanelli – ha una parte che funziona, quella repressiva che consente di intervenire in modo radicale, ma non in tutti i frangenti per ovvie ragioni legate al numero di verifiche e controlli. Va invece potenziata nel suo utilizzo la parte che riguarda la Rete del lavoro agricolo di qualità”. Il ministro ha quindi confermato quello che gli esperti di diritto del lavoro dicono da quando la legge 199 è stata approvata: le maggiori criticità del provvedimento normativo riguardano l’aspetto della prevenzione.
A tal proposito, il ministro ha concluso: “L’attività del sindacato è un modo per garantire una presenza, un presidio tra i braccianti. Su questo tema ci sarà il massimo supporto da parte mia personale e da parte del ministero”.