Local è diventato un must negli USA. È una rivoluzione nelle abitudini alimentari e nei consumi ortofrutticoli. Wal-Mart ha convertito i suoi più di 3.800 punti vendita in distributori di frutta e verdura coltivata a non più di 150 km dal banco dove l’espone con l’etichetta “Local”. Che sia una strategia per contenere le spese di trasporto (la benzina per spedire i broccoli dalla California a New York costa più dei broccoli; il 95% delle albicocche viene dalla Turchia, il 50% dell’aglio dalla Cina…) e che gli consentirà di risparmiare 1,5 milioni di dollari entro l’anno, è ovvio. Chiaramente è un importante business per i coltivatori americani dai quali Wal-Mart acquisterà 400 milioni di dollari di prodotti, parte dei quali prima provenivano dall’estero. Ma il fenomeno è interessante perché da elitario (prima relegato pochi che, abbandonata la frutta esotica, si erano dati al “local”) è ormai di massa e dà una concreta riposta al salutismo ed alle dilaganti preoccupazioni sulla qualità alimentare. Timori rinforzati dalle due epidemie che, in tre anni, hanno colpito gli spinaci poi i pomodori ed i peperoncini. E se, il prossimo passo sarà dal “local” al “bio” (stenta a decollare per i costi proibitivi: 1Kg di pesche local costa 2 dollari, bio 6), tuttavia le avanguardie newyorkesi ricorrono a qualcosa che sta prendendo piede anche in Italia: acquistano direttamente i prodotti dai contadini. Nella Philips Bridge Farm, per 60 dollari al mese, 200 famiglie ritirano, ogni sabato, una cassetta con la loro parte di raccolto.
I re del global si convertono al local
Frutta e verdura local, il nuovo mass-symbol USA spinto da Wal-Mart e GDO
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