Le pratiche commerciali sleali sono una prassi nel sistema agroalimentare. E’ quanto emerge da un dettagliato articolo firmato da Lara De Luna e pubblicato oggi su Repubblica secondo il quale aste al doppio ribasso, leggi che tendono ad arenarsi, aziende agricole che, per una serie di motivi, restano fuori della maglia protettiva di chi nella Gdo porta avanti buone pratiche sono, in Italia, all’ordine del giorno.
“Le aste al doppio ribasso sono state e sono, per chi le pratica, una modalità assolutamente non rispettosa dell’interazione commerciale – si legge nell’articolo che riporta le parole di Carlo Alberto Buttarelli, direttore ufficio studi e rapporti con la filiera di Federdistribuzione – Noi siamo stati promotori di un protocollo d’intesa con il ministero delle Politiche agricole per sottolineare la nostra volontà di collaborazione e il nostro desiderio di volerci mettere in prima linea non solo nella lotta al caporalato, ma a tutte le pratiche sleali nel commercio agroalimentare”. Eppure, le aziende agricole che rifuggono dal sistema sono tante, troppe.
Lo stallo normativo
Le pratiche sleali a cui si fa riferimento sono (anche) quelle inserite nel disegno di legge 1373 “Disposizioni in materia di limitazioni alla vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari e di divieto delle aste a doppio ribasso per l’acquisto dei medesimi prodotti”, discusso in Commissione al Senato il 17 marzo 2021. Sono passati quattro mesi ma, come fa notare Repubblica, sul sito istituzionale risulta “in stato di relazione“. A quanto pare, poi, l’orizzonte legislativo si è ulteriormente ampliato: l’approvazione della legge si inserisce all’interno dell’iter di recepimento della normativa europea 633, con focus sulle pratiche commerciali sleali nei rapporti della filiera agricola e alimentare, che dovrà arrivare in porto entro il primo novembre 2021 dopo essere stata varata nel 2019. Federdistribuzione è al tavolo con i ministeri competenti (Lavoro e Politiche agricole) per la stesura del decreto legislativo. Una norma che, secondo Federdistribuzione, è stata pensata per tutelare le aziende più piccole, maggiormente soggette a sfruttamenti vari. In ogni caso, la sensazione è che ci sia uno stallo normativo, che i tempi di approvazione siano biblici o, come scrive Repubblica, pachidermici.
Il lavoro agricolo di qualità stenta a decollare
Per spiegare meglio il meccanismo, Federdistribuzione racconta a Repubblica l’esperienza della Rete del lavoro agricolo di qualità, nata con l’obiettivo di porre un argine al fenomeno del caporalato a cui aderiscono, oltre a Federdistribuzione, molti grandi gruppi del settore Gdo.
Si tratta, nella pratica, di un elenco certificato di imprese agricole in regola con le disposizioni in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e valore aggiunto, volto a indirizzarle verso la controparte più adatta alla propria filosofia lavorativa. Ma, istituita con il decreto legislativo 91 del 2014 e modificata con la legge 199 del 2016, “è ancora lontana dal raggiungere il bacino di utenti necessario a creare un vero contrasto al fenomeno”, spiega la giornalista. In pratica, le aziende tarderebbero a iscriversi perché timorose di eccessivi controlli i quali, a lungo andare, potrebbero arrecare difficoltà nel quotidiano. Paura ritenuta peraltro legittima: come spiegano da Federdistribuzione, “l’eccessiva burocratizzazione fa sì che vengano bloccate ai varchi anche aziende che hanno con l’erario statale contenziosi minimi, infinitesimali, magari dovuti a un’incomprensione o anche solo a una rateizzazione di un importo dovuto”.
La soluzione nel Globalgap?
Per tale motivo, conclude Repubblica, la distribuzione moderna, di concerto con il ministero delle Politiche agricole, ha proposto alle insegne della Gdo (era inizio 2021) di accettare dai propri fornitori anche la certificazione secondo il modulo Grasp di GlobalGap, ossia una certificazione che prevede una procedura di iscrizione snella e che, al contempo, “vanta tutti i criteri per essere considerata adeguata agli obiettivi di tutela e rispetto delle buone pratiche sociali”. Ma davvero le pratiche sleali nella filiera agricola, e dunque anche ortofrutticola, sono ancora all’ordine del giorno? E davvero è colpa della burocrazia?