Una grande opportunità, nonché una necessità, ma il cammino è ancora lungo, soprattutto se l’obiettivo da raggiungere sono i 50 miliardi di euro di export da raggiungere fissati come obiettivo per il 2020. Nel giorno in cui Fruitimprese ha fatto il punto della positiva crescita dell’export ortofrutticolo nel 2017 (quasi 5 miliardi a valore, +6% rispetto al 2016), è toccato invece a Nomisma analizzare l’Italia dell’export agroalimentare nel suo complesso, confrontandolo con quello degli altri paesi, molti dei quali competitor diretti in molti settori e su molti mercati.
Nella relazione presentata ieri in occasione del convegno “L’agroalimentare italiano alla prova dell’internazionalizzazione”, all’Hotel Savoia di Bologna dallo studio legale LS Lexjus Sinacta – presenti Ioanna Stavropoulou (Granarolo spa), Giordano Emo Capodilista (Confagricoltura), Massimiliano Montalti (Assologistica), Andrea Villani (A.G.E.R.), Damiano Frosi (Politecnico di Milano) – emerge una quadro certamente in crescita e positivo, ma ancora molto distante rispetto a molti altri paesi europei.
L’Italia con i suoi 41 miliardi di euro di export si posiziona al quinto posto in Europa, dietro Olanda (86,8), Germania (76,0), Francia (60,5) e Spagna (47,7): un risultato, da record anche quest’anno, ottenuto, sottolinea Nomisma, grazie a “formaggi (+11%), vino (+6%), cioccolata (+20%), prodotti da forno (+12%)” e, aggiungiamo noi, l’ortofrutta fresca che, sommata a quella trasformata, continua a rappresentare la prima voce dell’export agroalimentare italiano.
Osservando la parte piena del bicchiere c’è una crescita che ci ha portato dai 22 miliardi del 2007 ai 40 dell’anno scorso, un balzo non indifferente in 10 anni, in mezzo ai quali si è anche consumata una delle crisi dei consumi alimentari più sanguinose mai viste che, gioco-forza, ha costretto tutti gli operatori del settore a guardare oltre i confini interni. Eppure risulta evidente come il solo effetto “made in Italy”, sebbene fondamentale e trainante, non basti a far spiccare il volo alle nostre produzioni sui mercati esteri.
Cosa manca? “Conoscenza, competenza e organizzazione” afferma Nomisma, fondamentali quando si affrontano i mercati internazionali, peculiarità ad appannaggio soprattutto delle aziende più strutturate. “Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore”, afferma Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma.
Aspetto, quest’ultimo, che si riflette osservando anche il corto raggio di esportazione dei nostri prodotti, che per 2/3 viaggiano all’interno dei paesi dell’Unione Europea, facendo invece molta fatica ad entrare all’interno di mercati più lontano e dove invece, sempre secondo Nomisma, ci sono grandi opportunità poiché si prevedono crescite interne dei consumi alimentari a doppia cifra nei prossimi cinque anni.
Certo non bisogna dimenticare come dazi e barriere complichino non poco la vita al settore, ancora di più se a doverli affrontare sono piccole e medie imprese. Nomisma sottolinea come dal 2012 al 2016 “il numero di misure sanitarie e fitosanitarie e barriere tecniche e commerciali è aumentato rispettivamente del 43% e 99% per non parlare dei dazi medi all’import che in alcuni casi sono superiori al 30% ad valorem”.
In conclusione, sfide e opportunità si compensano in eguale misura: internamente il carrello della spesa cambia in continuazione e costringe le aziende a ripensare la loro offerta alimentare, all’estero ci sono grandi spazi ma la concorrenza non manca e i grandi cambiamenti geopolitici – Embargo russo, Brexit e ultimo in ordine di tempo il protezionismo di Trump – non inducono certo all’ottimismo.